Il dolore fisico non dipende solo dal corpo: è una «scoperta» fondamentale per curarlo

di Elena Tebano

Siamo abituati a pensare che sia un fenomeno puramente biologico e meccanico e lo curiamo come tale. Invece è molto di più e la risposta sta nel nostro cervello

Il dolore fisico non dipende solo dal corpo: è una «scoperta» fondamentale per curarlo

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Nel 2007 il Journal of Psychosomatic Medicine ha descritto due casi che si sono rivelati emblematici per la comprensione scientifica del dolore. Riguardano due muratori e sono per certi versi opposti. Il primo è quello di un operaio edile di 29 anni, che è saltato da una piattaforma in un cantiere atterrando su un chiodo di 15 centimetri. Il chiodo gli è passato attraverso lo scarponcello, spuntando dall’altra parte, e il giovane ha sentito subito un dolore lancinante. Al Pronto soccorso stava così male che i medici gli hanno somministrato una flebo di fentanyl (uno degli oppiacei molto potenti al centro del dibattito sulle dipendenze da droga negli Stati Uniti). Poi gli hanno tolto gli scarponcelli da lavoro e hanno scoperto che il piede era intatto: il chiodo era passato nella fessura tra le dita e il muratore non aveva neanche un graffio. Eppure provava un dolore fortissimo.

L’altro caso riguarda un carpentiere che stava usando una sparachiodi. La pistola è partita accidentalmente, è rimbalzata all’indietro e lo ha colpito alla mascella. L’uomo ha incassato il colpo ma ha continuato a lavorare. Cosa che ha fatto anche per i sei giorni successivi. Aveva però un leggero mal di testa e un leggero mal di denti e alla fine della settimana si è deciso ad andare dal dentista, che gli ha fatto una radiografia. Con sua grande sorpresa ha scoperto di avere un chiodo di quattro centimetri conficcato nella mascella.

La natura del dolore

I due aneddoti, lungi da essere una stranezza, sono fondamentali per capire la natura del dolore. E in particolare del dolore cronico, un problema che solo nel nostro Paese affligge il 21,7% della popolazione, circa 13 milioni di persone, secondo l’Istat. Che sia la «cervicale», quel disturbo — scherzava anni fa un giornalista della Bbc — di cui soffrono solo gli italiani; oppure un mal di schiena ricorrente, che resiste ai farmaci, o alle operazioni per risolvere ernie o problemi muscolo-scheletrici, o addirittura una fibromialgia, il dolore persistente diffuso nei muscoli e nelle articolazioni. Siamo abituati a pensare che il dolore sia un fenomeno puramente biologico e meccanico, una sensazione soltanto fisica, e lo curiamo come tale. Spesso però non basta. Perché il dolore è più di una semplice afflizione corporea, come dimostrano le storie dei due muratori.

Non solo corpo

Il nostro modo limitato al corpo di concepire il dolore, spiega la psicologa del dolore dell’Università della California a San Francisco Rachel Zoffness, ha però enormi conseguenze: ci fa trascurare i fattori ambientali, sociali e psicologici che sono determinanti per curarlo. Zoffness, autrice di «The Pain Management Workbook», in una lunga intervista per il podcast Ezra Klein Show del New York Times, racconta come una diversa considerazione del dolore — basata su dati ormai acquisiti dalla ricerca medica e scientifica — possa invece aiutarci a curarlo meglio. Per capirlo bisogna partire da un presupposto: la funzione del dolore. Il dolore infatti è una sorta di sistema di allarme del corpo, un meccanismo di rilevamento del pericolo il cui compito è impedirci di fare qualcosa — per esempio camminare con una gamba rotta — che potrebbe danneggiarci: farci male, appunto. È per questo che le persone che nascono con una soglia del dolore così alta da non sentirlo di solito non vivono molto a lungo.

Terapia dello specchio

Il grido di allarme costituito dal dolore, spiega Zoffness, non è però il semplice risultato di un danno ricevuto dal corpo, bensì il suo corrispettivo mentale: non si trova “nel corpo”, ma è prodotto dal cervello. Questo fa sì, per esempio, che possiamo provare il cosiddetto «dolore dell’arto fantasma», il fenomeno per cui chi ha subito l’amputazione di un arto sente un forte dolore a una parte del corpo che non ha più. Dipende da come funziona il nostro cervello, che — semplificando — ha una mappa automatica del nostro corpo e la conserva integra anche se il corpo cambia. Uno dei trattamenti per il dolore da arto fantasma è dunque la cosiddetta terapia dello specchio, che consiste nel mostrare al paziente l’arto amputato: serve a ri-educare il cervello in modo che aggiorni la sua mappa automatica del corpo e capisca che i suoi messaggi di allarme (il dolore) non sono più necessari.

Il dolore non è immaginario

Non significa che il dolore sia immaginario. «Alle persone che soffrono di dolore, se non si riesce a trovare una particolare patologia o c’è un dolore di eziologia sconosciuta, viene spesso detto: è solo nella tua testa. Storicamente, questo accadeva soprattutto alle donne. Se provavano dolore o forti emozioni veniva loro diagnosticata l’isteria e veniva detto che i loro problemi erano solo nella loro testa. Ma il dolore che proviamo è sempre reale — dice nel podcast Zoffness —. E una delle cose più importanti di cui dobbiamo parlare quando parliamo di trattamento efficace del dolore è che non si può intervenire solo sulla schiena o sul ginocchio, ma si deve intervenire anche sul cervello». «Il cervello utilizza tutte le informazioni disponibili in un dato momento per decidere se produrre dolore e quanto, perché questo è il suo compito. Quindi — spiega ancora Zoffness — usa informazioni provenienti da esperienze passate. Usa il luogo in cui vi trovate e le persone con cui siete. Usa le emozioni, come vi sentite. Incorpora, naturalmente, i messaggi sensoriali provenienti dal corpo, da tutti e cinque i sensi».

Rilevatore di pericolo

Questo spiega la differente reazione tra i due muratori. Nel caso del primo muratore «il suo cervello, ovvero il suo rilevatore di pericolo, ha utilizzato tutte le informazioni disponibili: i ricordi di esperienze di dolore passate, la conoscenza dell’ambiente di lavoro pericoloso, il panico che ha visto sui volti dei suoi colleghi, la visione di un chiodo che spuntava dallo scarponcello». Le ha rielaborate e ha attivato il suo sistema di allarme: il muratore così ha sentito dolore (un dolore reale, lo ripetiamo). Al secondo muratore è successo il contrario: quando la pistola sparachiodi si è scaricata, ha avuto la percezione che il chiodo avesse attraversato la stanza conficcandosi nel muro di fronte a lui. «Quindi — racconta Zoffness —, ancora una volta, il suo cervello, il nostro rilevatore di pericolo, ha utilizzato tutte le informazioni disponibili per determinare se provare o meno dolore e quanto. Ha usato la visione di questo chiodo che attraversa la stanza e le informazioni relative all’esperienza di una pistola sparachiodi che lo ha colpito alla mascella e ha concluso che non era necessario provare molto dolore perché il suo corpo, in definitiva, era al sicuro. Il dolore e il danno ai tessuti non sono la stessa cosa».

Neuroplasticità

Tutto ciò ha grandissime conseguenze per il trattamento del dolore. Il cervello infatti cambia con il tempo e l’esperienza, è la cosiddetta neuroplasticità. «I percorsi cerebrali sono come i muscoli del corpo. Più li si usa, più quei percorsi diventano grandi e forti» spiega la psicologa. Vale anche in negativo. Più si fa esperienza del dolore più «la via del dolore nel cervello» (che non è una vera e propria via ma una serie di connessioni neuronali e con il sistema nervoso centrale, perché ci sono numerose parti del cervello che si attivano nella percezione del dolore ) si rafforza e più forte diventa il dolore. Semplificando, il dolore cronico nasce quando il cervello sintonizzato per captare i messaggi sensoriali del corpo li interpreta come pericolosi, amplificandoli, anche se non sono così pericolosi. È per questo che in molti casi, secondo Zoffness , il dolore cronico si autoalimenta.

«Se siete una persona che vive con il dolore e credete che sia pericoloso uscire e fare una passeggiata e che sia pericoloso vedere gli amici, non guarirete mai — dice —. Perché parte del ciclo del dolore cronico consiste nel rimanere in casa, nel rimanere a letto e nel perdersi molto della vita». In alcuni casi è inevitabile. «Ma nel caso del dolore cronico, è emerso che questo tipo di ciclo del dolore è quello che alla fine amplifica il dolore, perpetua la disabilità e impedisce la guarigione» dice Zoffness.

Invertire il ciclo del dolore

Il ciclo del dolore, però, può anche essere interrotto e addirittura invertito. «Gradualmente, nel corso del tempo, possiamo desensibilizzare un cervello sensibile aumentando gradualmente piccoli frammenti di attività fisica, esposizione sociale e movimento» spiega Zoffness. Anche perché ci sono molti fattori psicosociali che regolano il volume del dolore: come lo stress e l’ansia, l’umore e le emozioni o l’attenzione e ciò su cui ci concentriamo. «Le neuroscienze dimostrano che quando lo stress e l’ansia sono elevati e il nostro corpo e i nostri muscoli sono tesi e i nostri pensieri sono preoccupati, il cervello aumenta e amplifica il volume del dolore, quindi il dolore si sente di più» dice ancora Zoffness. Allo stesso modo il dolore peggiora quando proviamo emozioni negative e quando ci concentriamo su di esso.

Fattori psicosociali

Solitamente siamo abituati ad abbassare il volume del dolore intervenendo sui suoi fattori scatenanti biochimici: i farmaci antidolorifici fanno questo. Ma nel lungo periodo — se non ci sono cause fisiche più immediate da curare — è più efficace abbassare il volume del dolore intervenendo sui fattori psicosociali. Zoffness per esempio sa qual è ormai la sua «ricetta per il dolore», ovvero quali sono i fattori psicosociali che la rendono più sensibile al dolore: «sonno insufficiente, stare seduta per troppe ore senza muovermi, mangiare male senza assicurarsi di assumere frutta e verdura adeguate, non fare esercizio fisico, litigare con il mio partner o con la mia famiglia».

Questi fattori possono variare da persona a persona ed è fondamentale identificare i propri. «Se si guarda a ciò che sta nella ricetta del dolore, si può facilmente tracciare una ricetta del poco dolore» spiega la psicologa. «Nel mio caso — aggiunge — so che se non mi prendo cura del mio sonno, non mi prendo cura del mio dolore. So che devo prendermi cura della mia salute emotiva. So che devo occuparmi dell’esercizio fisico. So che devo ritagliarmi del tempo per uscire e camminare al sole, anche solo per 20 minuti al giorno».

La ricetta personale del poco dolore

Per liberarsi del dolore cronico più disabilitante è fondamentale dunque cercare la propria «ricetta del poco dolore» e farlo gradualmente. «Non si va fuori a correre una maratona il giorno dopo. Si sceglie un’attività, qualunque essa sia, e di solito è preferibile scegliere l’hobby o l’attività preferita a cui avevamo rinunciato, che si tratti di cucinare o di giocare a calcio, e tracciare una percorso di ciò che sarebbe necessario per tornare a quell’attività. E si può iniziare solo stando in piedi nella propria cucina per tre minuti, è da lì che si parte. La gradualità significa prendere l’attività preferita e dividerla in piccoli pezzi gestibili. E gradualmente tornare a svolgere quell’attività — dice Zoffness —. Non so dirvi quanti pazienti ho avuto che avevano un obiettivo impossibile, come tornare a giocare a calcio, e alla fine sono tornati a giocare a calcio».

25 febbraio 2023 (modifica il 25 febbraio 2023 | 14:26)