5 marzo 2021 - 07:51

«Papà Giacinto Facchetti? Quando uscii di casa a vent’anni non mi parlò per giorni»

Il terzino dell’Inter e della Nazionale nel ricordo del figlio terzogenito Gianfelice. Dai suoi silenzi al rifiuto dei viaggi. «Anche nei contrasti più duri abbiamo sempre giocato pulito»

di Lorenzo Viganò

«Papà Giacinto Facchetti? Quando uscii di casa a vent'anni non mi parlò per giorni»
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Leale in campo, nei dribbling con gli avversari, leale a casa, nei rapporti familiari. «Quando intorno ai vent’anni ho deciso di andare a vivere da solo — una scelta di crescita personale, non dettata da fratture con i miei — papà non la prese bene. E come faceva sempre quando qualcosa — una decisione, una novità — alterava il normale corso della vita quotidiana, si chiuse nel silenzio. Nonostante ci provasse, e ci ha provato tanto!, a volte non riusciva a dialogare. Gli ci voleva qualche giorno per metabolizzare il cambiamento, per digerirlo, e voltare pagina. Però i nostri contrasti, a volte anche forti, sono sempre stati leali. Ognuno di noi ha giocato con i propri pregi e difetti, ma ha sempre giocato pulito».

Gianfelice Facchetti, classe 1974
Gianfelice Facchetti, classe 1974

Parola di Gianfelice Facchetti, terzogenito — dopo Barbara e Vera e prima di Luca — di Giacinto Magno, come lo scrittore Giovanni Arpino chiamava il grande terzino dell’Inter e della Nazionale. Figlio che, dopo un promettente inizio sulle orme del padre (con la maglia dell’Atalanta e nell’organico della Nazionale under 15) ha scelto la strada del teatro e oggi è attore, scrittore e drammaturgo. Ma è rimasto il più legato al mondo professionale paterno, alla galassia neroazzurra, all’Inter — suo il discorso alle migliaia di tifosi riunitisi a San Siro per festeggiare il centenario della squadra. Custode attento della memoria del calciatore («Intervenni pubblicamente la prima volta quando il suo nome fu tirato in ballo senza alcun fondamento nello scandalo Calciopoli»), custode commosso di un rapporto padre-figlio consolidato e maturato nel tempo.

Uomo di grande eleganza e serietà («Con lui non si poteva criticare o parlare male dell’Inter: non lo sopportava»), Giacinto Facchetti aveva avuto un’educazione rigida. «Con un fratello e tre sorelle, era rimasto presto orfano di madre; suo padre, all’antica, era una persona di poche parole, buono ma duro. E quindi era quello il suo modello educativo, dal quale cercava spesso di affrancarsi, mettendosi in discussione come poteva, felice quando ci riusciva». Un papà attento; premuroso e dolce. Che aveva il mito della famiglia unita, da far vivere in armonia. «Ricordo un’infanzia molto bella, nella nostra casa con giardino a Cassano d’Adda, dove si era trasferito da Treviglio, suo paese natale, dopo il matrimonio con mia mamma, che abita ancora lì. Era sempre stato il suo sogno: una casa che lo riportasse alle origini contadine, alla terra. Tant’è vero che tra una trasferta e l’altra non poteva fare a meno di tornarci, anche se per poco, e mettere i piedi su un suolo che sentiva profondamente suo».

Forse anche per questo non gli piaceva partire. Lui, che con l’Inter e la Nazionale aveva girato il mondo, non amava viaggiare per viaggiare. «Al contrario di mia madre che sperava, quando avesse tolto la maglia nerazzurra e smesso di giocare, di andare con lui alla scoperta di altri Paesi. Invece, prima diventando dirigente con Pellegrini, poi presidente con Moratti, aveva continuato a essere molto impegnato, e così rimandava sempre la vacanza a un altro momento. Finché mia mamma ha iniziato a partire da sola». Ed è stato durante uno di questi viaggi che il rapporto Giacinto-Gianfelice ha una svolta. «Quando lui, partendo mia madre per l’India, rimane per la prima volta a casa da solo per un mese. Prima mi venne a trovare a sorpresa nel bar dove lavoravo in corso Buenos Aires. Non era mai successo: disapprovava il mio mestiere di barista. Il ricordo di quando lo vidi entrare ancora mi commuove. Nel bar, come sempre facevo per una sorta di protezione reciproca — mia e di mio padre —, avevo detto che non c’entravo niente con lui, che se mi chiamavo Facchetti era solo per una questione di omonimia. Così, quando la padrona gli chiese come mai mi conoscesse, papà rimase di sasso. Ma la cosa lo divertì. Poi, qualche giorno dopo, riuscii con uno stratagemma a mangiare da solo con lui, senza i miei fratelli. E da allora il nostro rapporto diventò adulto, a volte addirittura rovesciato nei ruoli; un rapporto di confronto aperto, di grande curiosità, stima e tifo per quello che facevo. Tanto che quando è mancato non erano rimaste cose in sospeso, non dette o non chiarite. Ma solo il dispiacere di non aver avuto altro tempo a disposizione».

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