29 gennaio 2018 - 07:41

Da viale Jenner a Como, il lungo filo che lega l’Italia e la Bosnia islamista

Un rapporto riemerso con l’indagine su padre e figlio egiziani, Sayed e Saged Ahmed. Aiuti, armi e combattenti: le radici della rete jihadista.

di Guido Olimpio


(Ap)
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Un lungo cordone ombelicale lega l’Italia alla Bosnia islamista. Un rapporto riemerso con l’indagine su padre e figlio egiziani, Sayed e Saged Ahmed. La prima pagina di questo «libro» è stata scritta a metà dagli anni 90 quando Anwar Shaaban, prestigioso e influente imam egiziano, arriva da Milano nei Balcani in missione esplorativa. Il suo compito, insieme ad un pugno di compagni, è di dare una mano concreta ai musulmani jugoslavi sotto assedio. Nel conflitto civile i bosniaci sono in inferiorità, hanno bisogno di combattenti esperti.

Insieme a Shaaban ci sono egiziani, algerini e sauditi, compreso un combattente carismatico, veterano della lotta contro i russi in Afghanistan, Abu Abdel Aziz, alias il Barbarossa. I volontari agiscono su due campi, uno a Zenica e un secondo a Mehirici, vicino a Travnik. Sono le basi per ospitare i volontari che arrivano dal Nord Africa e dal Medio Oriente, ma anche dall’Europa attraverso una rete capillare. Shabaan è il faro, l’ispiratore, che unisce la parola alla spada, è la guida spirituale del Battaglione Mujaheddin. Ha alle sue spalle il movimento integralista egiziano e molti giovani che si sono fatti le ossa in Afghanistan o in Algeria. Alcuni provengono dal gruppo vicino ad un personaggio poco noto allora, Osama bin Laden. Per sostenere la causa dei bosniaci — appoggiata all’epoca anche dall’Occidente — gli islamisti stendono una grande rete di solidarietà che è anche usata per inviare verso Zenica nuovi elementi.

Shaaban, prima del trasferimento definitivo in Bosnia, vive a lungo a Milano, abita in via Teano, quartiere della Comasina. Si è stabilito in Lombardia nell’89 dopo un lungo peregrinare legato alle sue scelte politiche estreme. In Egitto era vicino alle famiglie degli assassini del presidente Sadat, poi una lunga rotta di viaggio che lo porta in Giordania, Arabia Saudita, forse l’Afghanistan, quindi il Kuwait, ultima tappa prima di sbarcare nella nostra città. È lui ad animare il centro culturale islamico di viale Jenner: le inchieste di Digos e carabinieri accerteranno negli anni l’enorme ragnatela di contatti dell’egiziano, uomo di grande spessore e con in tasca una laurea di ingegneria. Viaggerà, manterrà un rapporto solido con lo sceicco cieco, Omar Abdel Rahman, coinvolto nel primo attentato alle Torri Gemelle, nel febbraio 1993, e con altri sheikh che un giorno «saranno famosi» nella nebulosa radicale.

Shaaban è ormai una stella nella gerarchia della fazione Jamaa Islamiya e svolge una funzione preziosa usando il nostro territorio come perno per spedire viveri, denaro e altro ai fratelli in Bosnia. È un impegno di Jihad, ma anche una campagna umanitaria in favore dei musulmani. La filiera porterà non pochi «milanesi» nei ranghi del Battaglione che si distinguerà negli scontri per la determinazione e per la ferocia nei confronti del nemico.

Nelle intenzioni islamiste la presenza nel territorio bosniaco avrebbe dovuto innescare una seconda fase, con lo sviluppo di un’azione verso il resto d’Europa. Ma la realpolitik dei Grandi deciderà diversamente. Il governo di Sarajevo si piega alle richieste e deve sacrificare i militanti diventati «ingombranti». In settembre sparisce Abu Talal, altro egiziano di peso legato all’imam milanese. I suoi compagni si vendicano con un’azione suicida contro un commissariato a Fiume. Il kamikaze è al volante di una vettura targata Bergamo. L’epilogo è vicino anche per Shaaban. Il leader è assassinato ad un posto di blocco il 13 dicembre 1995 a Zepce, in Bosnia: target killing per annientare l’anima dei mujaheddin. In realtà quanto ha insegnato non è perduto. Diversi reduci proseguiranno l’impegno all’estero e finiranno in inchieste giudiziarie. Un nucleo, che ha messo su famiglia, rimarrà nei Balcani. Altri seguaci riappariranno nello Yemen, di nuovo in Afghanistan, in Siria. E persino a Fenegrò, in provincia di Como, dove la Digos ha fermato il padre jihadista Sayed Ahmed, uno dei mujaheddin di Zenica. Dove tutto è iniziato.

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