Milano, 15 agosto 2016 - 07:46

«Spacciavo droga in Centrale
Poi i sermoni in viale Jenner»

La vita milanese del terrorista Abu Nassim: così ho scoperto il jihad

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L’ indirizzo segnato sul suo primo permesso di soggiorno, anno 1990, è viale Umbria, 21. All’epoca le leggi sull’immigrazione erano piuttosto blande e fece più volte su e giù dalla Tunisia, arrivando in nave a Genova. Lavorò a Napoli e Caserta, fino a che non salì a Milano, dove un anziano imprenditore edile lo pagava due soldi in nero, ma lo mise a posto con i documenti. Fece anche l’ambulante in via Vitruvio. Poi cercò di sistemarsi un po’ meglio: chissà se gli archivi pubblici conservano ancora le antiche tracce di Moez Ben Abdelkader Fezzani, nome di battaglia Abu Nassim, oggi, a 47 anni, «generale» dell’Isis che i servizi libici indicano come uno dei personaggi più pericolosi tra quelli collegati all’Italia dopo la sconfitta del Califfato a Sirte. Nella sua «prima vita», Fezzani era un ventenne immigrato che si affidò anche al Comune di Milano. Venne ospitato in un dormitorio in via Corelli, inviato a frequentare un corso di italiano legato alla scuola «Fernando Santi» in un locale vicino a piazza XXIV Maggio e «studente» in un corso da falegname. Poi andò a Bolzano, dove il fratello spacciava. Da quel momento inizia la seconda parte della sua storia, quella di piccolo balordo di strada: «A Milano ho venduto eroina e hashish prima di diventare un uomo pio e religioso», ha raccontato lui stesso il 21 dicembre 2009 ai magistrati, appena «riconsegnato» all’Italia dopo 7 anni passati in mani Usa a Bagram, in Afghanistan, in condizioni di detenzione tipo Guantanamo.

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I quaderni dell?Isis a Sirte e la scritta: «Da qui prenderemo Roma»

Abu Nassim
Abu Nassim

Nel ricostruire la sua «carriera» (piena di omissioni e minimizzazioni), Fezzani però ricorda i passaggi classici dell’educazione di molti jihadisti. Il più importante: dalla strada (risse e droga), alla scoperta della religione in forma deviata. Ruotava tutto intorno alla stazione Centrale: «Nel giugno del 1992 fummo arrestati assieme per 43 grammi di hashish in quanto lui (un amico dell’epoca, ndr ) era andato a comprarli e poi c’eravamo incontrati in strada nei pressi della stazione». E poco dopo: «A Milano ho conosciuto tale Lotfi, incontrato una prima volta ai giardini nei pressi della stazione ferroviaria, che era l’accompagnatore di 6 o 7 pakistani i quali cercavano d’incontrare persone arabe per avvicinarle alla moschea». Di fronte ai magistrati, nel 2009/10, Fezzani però insiste in una maldestra professione di innocenza: «Voglio a questo punto però spiegarvi che andare a pregare in una moschea non significa essere dei terroristi». Poco dopo, però, prenderà la strada del jihad. «Non ricordo esattamente chi fu del mio gruppo a convincermi di andare un giorno in viale Jenner». È un momento chiave. Perché all’epoca l’Istituto culturale islamico era una delle più importanti stazioni dell’estremismo islamico in Europa (oggi è tutto cambiato e l’Ici intrattiene da anni rapporti con il Comune, fin dai tempi delle amministrazioni di centrodestra).

In quegli anni, 1993-94, tutti i canali dell’islamismo portavano in Bosnia, dove i salafiti coltivarono per la prima volta l’idea di costituire un Califfato al fianco dei bosniaci che stavano combattendo la guerra contro i serbi: « In quel periodo l’imam di viale Jenner era Anwar Shaaban. Prima di frequentare la moschea avevo considerato in astratto la possibilità di andare a combattere in Bosnia perché attraverso la televisione ed i giornali conoscevo la drammatica situazione dei musulmani e soprattutto quello che stavano vivendo donne e bambini. Mi convinsero i sermoni di Shaaban. Parlai con lui, che, dopo avere verificato la mia determinazione, fece in modo che io raggiungessi quei luoghi». Fezzani si imbarcò ad Ancona, venne addestrato, fece un anno di combattimento e tornò a Milano trasformato: a quel punto era un mujaheddin strutturato, «decorato» e pronto ad assumere un ruolo di responsabilità. Lo fece diventando un «reclutatore»: prima dalla casa di via Paravia 84, a San Siro, e poi come referente in Pakistan per tutti i tunisini aspiranti combattenti. È lì che venne arrestato dai militari Usa. Riconsegnato all’Italia, venne espulso e rimandato in Tunisia nel 2012, prima della condanna per terrorismo in secondo grado. Col disordine dopo le Primavere arabe, s’è ritrovato libero e ha ripreso la sua carriera di jihadista itinerante.

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